BANCA DATI UNGULATI

 

Distribuzione, gestione, prelievo venatorio e potenzialità delle popolazioni di ungulati

 

Luca Pedrotti, Eugenio Duprè, Damiano Preatoni, Silvano Toso

 

ISTITUTO NAZIONALE PER LA FAUNA SELVATICA

 

PARTE TERZA

 

Cinghiale

 

Superordine: Ungulata

Ordine: Artiodactyla

Sottordine: Suiformes

Famiglia: Suidae

Sottofamiglia: Suinae

Genere: Sus

Specie: Sus scrofa

 

Ancora incerta e non completamente chiara risulta la sistematica del cinghiale, ulteriormente complicata da due ordini di fattori legati alle attività umane: l’ibridazione delle popolazioni selvatiche con i conspecifici domestici e l’incrocio con forme evolutesi in aree geografiche differenti ed  introdotte dall’uomo in zone estranee al loro areale originario. E’ stato verificato, in ambito europeo, un cline nella dimensione media dei soggetti delle diverse popolazioni lungo un gradiente geografico che si sviluppa da nord-est a sud-ovest, spiegabile soprattutto in base alle diverse condizioni ecologiche.  Le  incertezze sul reale significato sistematico delle 16 sottospecie riconosciute fanno sì che attualmente ci si limiti ad individuare quattro informali raggruppamenti geografici regionali (razze occidentali, comprendenti le sottospecie europee, razze indiane, orientali e indonesiane), nei quali vengono inserite le varie sottospecie al fine di distinguerne determinate caratteristiche morfologiche.

Il cinghiale rappresenta la specie selvatica da cui si sono originate, per domesticazione e selezione artificiale, gran parte delle razze di maiali domestici e delle popolazioni di maiali inselvatichiti. L’areale originario, uno dei più vasti tra quelli che caratterizzano gli ungulati selvatici, copre gran parte del continente euro-asiatico e la porzione settentrionale dell’Africa; se vengono considerate anche le forme domestiche e inselvatichite, introdotte in vaste aree del continente americano, in Australia e in alcune isole del Pacifico, questa specie rappresenta uno dei Mammiferi a più estesa distribuzione geografica.

La forma autoctona delle regioni settentrionali italiane scomparve prima che potesse essere caratterizzata dal punto di vista sistematico, mentre carenti risultano le informazioni disponibili sull’origine di Sus scrofa meridionalis e Sus scrofa majori, formalmente presenti rispettivamente in Sardegna e in Maremma. Recenti studi basati sull’analisi craniometrica ed elettroforetica hanno messo in luce come la popolazione maremmana non sia sostanzialmente diversa dalle altre presenti nella restante parte della penisola (Sus scrofa scrofa), ma debba essere considerata un ecotipo adattato all’ambiente mediterraneo, mentre la sottospecie presente in Sardegna se ne differenzia sia morfologicamente che geneticamente, facendo ipotizzare una sua origine da suini domestici anticamente inselvatichiti.

In Italia il cinghiale occupa una vasta varietà di habitat, dalle aree intensamente antropizzate dei primi rilievi collinari agli orizzonti schiettamente montani. La sua distribuzione geografica sembra limitata solo dalla presenza di inverni molti rigidi, caratterizzati da un elevato numero di giorni con forte innevamento o da situazioni colturali estreme con totale assenza di zone boscate, anche di limitata estensione,  indispensabili come zone di rifugio. L’optimum ecologico sembra rappresentato dai boschi decidui dominanti dal genere Quercus, alternati a cespuglieti e prati-pascoli.

 

Distribuzione

 

In relazione alla sua ampia valenza ecologica e alle notevoli manipolazioni operate sulle popolazioni  dall’uomo, il cinghiale è l’ungulato che attualmente possiede in Italia il più vasto areale (Fig. 1) , che si estende complessivamente per circa 170.000 km2, pari al 57% del territorio nazionale.

Il suide è distribuito, senza soluzione di continuità, dalla Valle d’Aosta, attraverso le Alpi occidentali e gli Appennini, sino alla Calabria e in tutta la Sardegna, ad eccezione della costa marchigiana e abruzzese settentrionale, di vaste zone della Puglia e delle aree fortemente antropizzate attorno a Roma e Napoli. In Sicilia la sua presenza è frutto di immissioni assai recenti.

La distribuzione si fa estremamente frammentata e discontinua nell’arco alpino centrale ed orientale, dove la presenza del cinghiale è rilevata in alcune zone prealpine e dell’orizzonte montano ed è la conseguenza di immissioni, in genere abusive. In Lombardia la specie è presente nella porzione collinare e montana della provincia di Varese, nel Parco del Ticino (MI, NO), nei comprensori alpini della provincia di Como, nel Triangolo lariano (LC, BO). Nelle province di Bergamo e Brescia esistono nuclei localizzati in alcune aree prealpine (Val Brembana, BG; Val Sabbia, DS). Una popolazione di cinghiale è  localizzata nella parte sud-occidentale della Provincia di Trento (basso Chiese), mentre la presenza della specie è del tutto  sporadica in provincia di Bolzano (altopiano del Renon). Nel Veneto il suide occupa la bassa Val d’Adige (VR), la zona di confine tra le province di Treviso e Belluno e l’altopiano del Cansiglio (BL,TV, PN). Ulteriori nuclei sono presenti nel Friuli-Venezia Giulia in provincia di Udine e lungo il confine con la Slovenia; la sua presenza torna ad essere continua tra le Valli del Natisone a nord (UD) e la provincia di Trieste.

Complessivamente il cinghiale è diffuso in 90 province su 103 (87%); in 66 (73%) di queste le popolazioni sono consistenti e ben distribuite, in 17 (19%) il cinghiale occupa il territorio in modo discontinua e con nuclei tra loro isolati e in 7 (8%) la sua presenza è ancora sporadica (Fig. 2).

 

Consistenza

 

Secondo una stima orientativa e largamente approssimativa basata sul numero di soggetti abbattuti annualmente (a loro volta spesso frutto di stime ed estrapolazioni), sul territorio nazionale sarebbero presenti non meno di 300.000-500.000 cinghiali.

Il quadro relativo alle conoscenze circa le densità e le consistenze delle diverse popolazioni italiane rimane tuttora alquanto carente e poco conosciuto, come conseguenza di una gestione del patrimonio faunistico che, a parte alcune eccezioni, risulta priva delle indispensabili basi tecnico-scientifiche e di un’adeguata programmazione e coordinamento degli interventi.

Questa grave carenza d’informazioni è anche determinata dal tipo di gestione venatoria cui la specie è sottoposta. Infatti, a differenza di quanto avviene per gli altri ungulati, cacciati di norma secondo piani d’abbattimento quantitativi e qualitativi frutto di stime annuali della consistenza delle popolazioni locali, nel caso del cinghiale, se si eccettuano rare eccezioni, non esiste un rapporto organico tra consistenza e prelievo e, pertanto, non vengono effettuati censimenti e neppure vengono calcolati indici relativi d’abbondanza su serie storiche.

Informazioni relative alle caratteristiche demografiche ed ecologiche delle popolazioni sono disponibili solo per singole realtà territoriali. Il coinvolgimento ed il coordinamento nella raccolta delle informazioni, da parte degli enti locali competenti per territorio, dovrebbe configurarsi quale primo passo per migliorare le necessarie conoscenze sulla specie e per individuare future più razionali strategie di gestione.

Sulla base dei pochi studi sinora realizzati, nei territori sottoposti a prelievo venatorio la densità del cinghiale raramente supera i 3-5 capi/100 ha, anche se concentrazioni maggiori sono riportate in alcune aree (nella Tenuta Presidenziale di Castelporziano la densità può oscillare tra i 9 e i 39 capi/100 ha).

La distribuzione del cinghiale e la densità delle sue popolazioni sono state in passato, e sono tuttora, condizionate dal tipo di gestione effettuata, specialmente in relazione ad importanti attività di carattere economico. L’utilizzo venatorio della specie tende a massimizzare le presenze sul territorio, mentre l’impatto esercitato sulle attività economiche spesso impone un’azione di controllo sullo sviluppo delle popolazioni.

 

Status ed evoluzione delle popolazioni

 

In tempi storici il cinghiale era presente in gran parte del territorio italiano. A partire dalla fine del 1500 la sua distribuzione andò progressivamente rarefacendosi, a causa della persecuzione diretta cui venne sottoposto da parte dell’uomo. Estinzioni locali successive si registrarono in Trentino (XVII secolo), Friuli e Romagna (XIX secolo), Liguria (1814); il picco negativo venne raggiunto negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando scomparvero le ultime popolazioni viventi sul versante adriatico della penisola. Il cinghiale ricomparve in modo autonomo nell’Italia nord-occidentale attorno al 1919, quando alcuni soggetti provenienti dalla Francia colonizzarono parte della Liguria e del Piemonte.

A partire dalla fine degli anni ’60 è iniziata una nuova crescita delle popolazioni con un progressivo ampliamento dell’areale, sino alla situazione odierna; a determinare questa crescita hanno concorso alcuni dei fattori responsabili dell’esplosione demografica del cinghiale anche nel resto d’Europa. Il recupero del bosco in zone precedentemente utilizzate per l’agricoltura e la pastorizia, il progressivo spopolamento di vaste aree di media montagna, sia a livello alpino che, soprattutto, appenninico e la conseguente diminuzione della persecuzione diretta, hanno contribuito in buona misura a determinare questo fenomeno. Non meno  importante si è rivelata, a partire dagli anni ’50, la massiccia introduzione di cinghiali, inizialmente operata con soggetti catturati all’estero e, successivamente, con animali prodotti in allevamenti che si sono andati progressivamente sviluppando in diverse regioni italiane. Ciò ha creato problemi di incrocio tra sottospecie differenti e di ibridazione con le forme domestiche, che hanno determinato la scomparsa dalla quasi totalità del territorio della forma autoctona peninsulare.

 

Tabella 1 – Presenza del cinghiale nelle diverse regioni italiane, riferita al periodo 1998-2000

 

              Regione

                 Presenza

 

Piemonte

Val d’Aosta

Lombardia

Trentino Alto Adige

Veneto

Friuli-Venezia Giulia

Liguria

Emilia-Romagna

Toscana

Marche

Umbria

Abruzzo

Molise

Lazio

Campania

Puglia

Basilicata

Calabria

Sicilia

Sardegna

 

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente in nuclei disgiunti

Presente in nuclei disgiunti

Presente in nuclei disgiunti

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente in nuclei disgiunti

Presente diffusamente

 

 

Piani di prelievo e abbattimenti realizzati

 

Il cinghiale è attualmente cacciato in quasi tutto il territorio da esso occupato. Le uniche eccezioni rimangono al momento le province di Lecco, Verona e Vicenza, dove il suide è presente con nuclei di limitata consistenza. In provincia di Treviso la caccia al cinghiale è stata autorizzata a partire dal 1999.

Nelle province di Milano, Bolzano e Belluno il cinghiale non rientra tra le specie cacciabili; piani di controllo numerico vengono tuttavia realizzati nel Parco del Ticino (MI) e nella porzione meridionale del territorio di Belluno. In Alto Adige la presenza della specie è ritenuta indesiderata e gli animali sporadicamente avvistati vengono tendenzialmente eliminati.

Complessivamente la specie è cacciata in 84 province sulle 90 in cui è presente (93%). In  tabella 2 vengono riportate le cifre ufficiali, fornite dalle rispettive amministrazioni provinciali o regionali, relative al numero di cinghiali abbattuti. Per le aree in cui non è stato fornito alcun dato, è stata effettuata una stima grossolana basata sull’andamento dei prelievi nei territori limitrofi. Le cifre riportate sono comprensive degli animali prelevati sia in attività di caccia sia in controllo, e devono essere considerate una stima del minimo prelievo

 

Tabella 2 – Entità e distribuzione media dei prelievi annuali di cinghiale nel periodo 1998-1999.

 

Regione

Abbattimenti

Piemonte

Val d’Aosta

Lombardia

Arco Alpino Centro-Occidentale

 

Trentino-Alto Adige

Veneto

Friuli-Venezia Giulia

Arco Alpino Centro-Orientale

 

Liguria

Emilia-Romagna

Toscana

Marche

Umbria

Appennino Centro-Settentrionale

 

Abruzzo

Molise

Lazio

Campania

Puglia

Basilicata

Calabria

Sicilia

Sardegna

Appennino Centro-Meridionale

5.000

250

1.450

6.700

 

30

--

400

430

 

10.000

11.000

31.000

3.000

4.500

59.500

 

3.000

1.300

3.000

3.000

115

1.000

3.000

Cacciato

12.000

26.415

 

Totale

93.045

 

complessivo attuato. In molte aree infatti i dati relativi alle azioni di caccia non vengono raccolti,  mentre in altre esiste comunque una certa discrepanza tra il carniere dichiarato ed il  numero di cinghiali effettivamente abbattuti.

Per il periodo 1998-2000 è stimabile un prelievo complessivo annuale non inferiore ai 93.000 capi. La maggior parte di essi (74.000) viene abbattuto sulla dorsale appenninica e nelle aree limitrofe (59.500 nell’Appennino centro-settentrionale e 14.400 in quello centro-meridionale, pari all’80% dei prelievi), mentre i restanti 7.000 sono prelevati sulle Alpi; di questi il 95% si riferisce all’arco alpino centro-occidentale.

La caccia al cinghiale è abitualmente esercitata in forma collettiva, mediante la tecnica della braccata, da cacciatori organizzati in squadre;  questo sistema prevede che gli animali vengano spinti verso le poste da una muta di cani, di varie razze e dimensioni,  condotti da un numero variabile di conduttori (canai) e/o semplici battitori (l’ottocentesca “cacciarella”). Benché  questa forma di caccia risulti di gran lunga la più diffusa e probabilmente la più efficace in alcuni contesti ambientali (boschi chiusi di grande estensione, macchia mediterranea), essa presenta diversi aspetti critici connessi al disturbo arrecato alle specie non oggetto di caccia, alla scarsa capacità di rispettare un piano di prelievo qualitativo (con conseguente destrutturazione delle popolazioni cacciate), all’elevata percentuale di capi feriti e non recuperati.

In aree limitate, il suide viene cacciato, anche o in forma esclusiva, mediante caccia di selezione con carabina, solitamente all’aspetto in aree dove gli animali vengono appositamente richiamati con esche alimentari, oppure alla cerca. Il tiro con la carabina risulta caratterizzato da un miglior grado di selettività e da un disturbo assai limitato.

Un’altra tecnica di prelievo recentemente introdotta, in particolare nella regione Emilia-Romagna (al momento soprattutto come forma di controllo), è quella della girata. La girata è effettuata dal conduttore di un unico cane che ha la specifica funzione di limiere, cioè quella di segnalare la traccia calda dei cinghiali, che dopo l’attività alimentare notturna si rifugiano nei tradizionali luoghi di rimessa. Il conduttore e il cane formano il binomio di base per questo tipo di attività, che si svolge in tre fasi diverse: la tracciatura, la disposizione delle poste e lo scovo. La girata rappresenta un sistema caratterizzato da un positivo rapporto tra sforzo praticato e risultati ottenuti, a far fronte di un disturbo assai più limitato rispetto a quello generato dalle braccate.

 

Principali problemi di conservazione/gestione

 

Anche in Italia il cinghiale ha dimostrato un’enorme adattabilità alle condizioni ecologiche più varie, sviluppando popolazioni estremamente vitali e caratterizzate da incrementi naturali assai elevati. Tra gli ungulati italiani esso riveste un ruolo del tutto peculiare, sia per le intrinseche caratteristiche biologiche, sia perché rappresenta una specie assai “manipolata” e in grado di esercitare un forte impatto negativo nei confronti di importanti attività economiche.

La distribuzione geografica è in continua evoluzione anche nel nostro Paese; il fenomeno è assai rilevante, sia per l’entità dei nuovi territori conquistati che per la rapidità che ha caratterizzato e continua a caratterizzare lo sviluppo delle popolazioni. Negli ultimi trent’anni l’areale si è più che quintuplicato.

In questi ultimi anni la specie ha assunto un’importanza venatoria progressivamente crescente con notevoli conseguenze dirette e indirette, sia sul piano faunistico sia su quello gestionale.  Se  da un lato la gestione venatoria tende a massimizzare le presenze della specie sul territorio ed è responsabile di operazioni di immissione criticabili sotto il profilo tecnico e biologico, l’impatto che il cinghiale è in grado di esercitare sulle attività agricole e su altri elementi della zoocenosi impone  in molti casi la necessità di controllare la densità delle sue popolazioni per mantenerla entro livelli economicamente accettabili.

Le cause che hanno favorito l’espansione e la crescita delle popolazioni sono legate a molteplici fattori. Tra questi, le immissioni a scopo venatorio hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale. Iniziati con cinghiali importati dall’estero, in un secondo tempo i rilasci sono proseguiti soprattutto con soggetti prodotti in cattività in allevamenti nazionali. Tali attività di allevamento ed immissione sono state condotte in maniera non programmata e senza tenere conto dei principi basilari della pianificazione faunistica e della profilassi sanitaria. Ancora oggi il fenomeno sembra interessare costantemente nuove aree, con  immissioni più o meno abusive (come testimonia la comparsa della specie in alcuni territori dell’arco alpino dove l’immigrazione spontanea sembra evidentemente da escludersi). Non va taciuto peraltro che, anche di recente, diverse Amministrazioni locali, soprattutto nella parte meridionale del Paese, hanno autorizzato, se non addirittura attuato direttamente, immissioni di cinghiale a scopo di “ripopolamento”. Inoltre,  buona parte delle amministrazioni pubbliche concede autorizzazioni per la realizzazione di nuovi allevamenti, senza poi avere le capacità effettive per garantire il controllo sulle origini, sullo stato sanitario e sulla successiva destinazione dei soggetti allevati. In una situazione di questo genere, la distinzione tra allevamenti per la produzione di carne e per la produzione di animali destinati al ripopolamento diventa solo nominale.

Le immissioni aumentano il rischio di introduzione di alcune malattie, quali la tubercolosi e, soprattutto, la peste suina, in grado di creare rischi sanitari per la successiva diffusione degli agenti patogeni, sia  a carico delle popolazioni selvatiche di cinghiale, sia dei maiali domestici allevati.

L’attuale mancanza di criteri di gestione venatoria razionali ed omogenei rende difficoltosa l’organizzazione di un controllo programmato della specie. La forma di caccia attualmente più utilizzata, la braccata con i  cani da seguito, crea spesso una destrutturazione  delle popolazioni, caratterizzate da elevate percentuali di individui giovani, responsabili di un sensibile aumento dei danni alle colture. Essa inoltre arreca un elevato disturbo ad altri elementi della fauna selvatica, in particolare ai Cervidi. In alcune situazioni locali un’abbondante presenza del suide può essere determinante nel provocare una contrazione numerica delle popolazioni di gallo forcello e pernice rossa per predazione delle uova.

Nei  territori maggiormente interessati dalle produzioni agricole il cinghiale crea un forte impatto sulle coltivazioni per asporto diretto a fini alimentari di numerose essenze e per il danneggiamento dovuto all’attività di scavo. Tale fenomeno raggiunge spesso dimensioni considerevoli; sino all’80% dei fondi a disposizione delle amministrazioni provinciali per far fronte all’impatto causato dalla fauna selvatica sulle attività antropiche di interesse economico vengono infatti annualmente destinati al risarcimento dei danni causati dal cinghiale.

Il cinghiale si è rivelato estremamente adattabile ad ambienti assai diversi ed ha dimostrato una buona capacità di mantenere popolazioni vitali, nonostante le modificazioni cui sono stati sottoposti gli habitat  originari e l’elevata pressione venatoria che viene esercitata nei suoi confronti. Tuttavia, i problemi evidenziati rendono necessario perseguire una strategia di conservazione a medio e lungo termine fondata sull’individuazione di precisi obiettivi e realizzata attraverso azioni in grado sia di migliorare lo status delle popolazioni, sia di ridurre significativamente gli impatti negativi che la specie può produrre. Tra gli obiettivi prioritari da perseguire possono essere individuati i seguenti:

-         acquisire maggiori conoscenze al fine di ottenere una quadro dettagliato della distribuzione, consistenza e tendenze evolutive della specie su tutto il territorio italiano;

-         promuovere ed approfondire le conoscenze sulla biologia e l’ecologia del cinghiale nelle diverse tipologie ambientali che caratterizzano il nostro Paese;

-         disincentivare la proliferazione degli allevamenti ed effettuare un controllo efficace e capillare sugli allevamenti autorizzati;

-         definire, nell’ambito degli strumenti di programmazione regionali e provinciali, le vocazionalità dei differenti territori in funzione dell’idoneità ecologica e socio-economica per la specie;

-         individuare una strategia di gestione corretta che consenta l’utilizzo delle popolazioni di cinghiale intese come una risorsa naturale rinnovabile (riorganizzazione e controllo adeguato dell’attività venatoria).

                                                              (continua)

 

DIDASCALIE

 

Fig. 1- Areale del cinghiale al 1998

Fig. 2– Presenza del cinghiale nelle diverse province italiane al 2000; il colore scuro indica una presenza stabile e consistente, il colore intermedio indica una presenza in nuclei discontinui e consistenze ancora limitate; il colore chiaro indica i territori in cui la presenza è tuttora sporadica.

 

U.R.C.A. Lombardia ringrazia la Redazione della rivista Habitat e il prof. Franco Nobile per avere autorizzato la pubblicazione della prima parte di questo interessantissimo studio sul cinghiale, firmato dal Prof. Silvano Toso e Coll.. Ci auspichiamo che tale iniziativa possa costituire il primo passo di una fattiva collaborazione con una Rivista che per noi  costituisce da sempre un illustre punto di riferimento culturale e tecnico.